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RIPLEY | Recensione della miniserie Netflix

Roma – Imola – Palermo – Livorno – Empoli – Ypsilon: Ripley. Thomas Ripley. Per gli amici Tom. Anche se Tom di amici non ne ha. Vive studiando gli altri: il suo sguardo tenta di catturare l’essenza di chi gli sta davanti. Una volta scelta la sua preda, fa di tutto per cambiare identità. Perché lui una non ne ha: è in cerca di un modello da catturare, copiando e replicando. Il suo mentore diventa Caravaggio: la fuga a Roma dopo aver commesso un omicidio e l’ossessione per la luce (e le ombre). Il pregio principale di Ripley, la miniserie Netflix che riadatta il romanzo Il talento di mister Ripley, sta proprio nei chiaroscuri del bianco e nero, in una fotografia nitida, asciutto, snella, tutta orientata a rendere la freddezza di un uomo algido.

Discostandosi nettamente dalle versioni precedenti del libro di Patricia Highsmith – Delitto in pieno sole di René Clement, che nel 1960 lancia Alain Delon, e Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella del 1999, con Matt Damon – qui il protagonista non sembra avere sentimenti, né mostrare una particolare attrazione verso gli uomini. Se nella versione di Minghella c’era un Matt Damon giovanissimo come Ripley che usava gli occhiali come maschera e il suo viso quasi da adolescente per mentire (soprattutto alle donne), e c’era un Jude Law bellissimo, capace di far innamorare chiunque col suo sguardo e la sua voce, qui Ripley è Andrew Scott che fa della sua calma il cammeo della serie tv, incentrata per lo più sulla lentezza di un’azione che non disturba, anzi, ne rappresenta la forza. 

Nel film di venticinque anni fa tutto era molto più veloce, con un ritmo serrato che scorreva in avanti, capace di mettere in campo ogni sfaccettatura dell’amore: tradimento, desiderio, manipolazione, ossessione, delusione, odio. Il Ripley di Steven Zaillian è, invece, orientato sull’estetica: dalla fotografia magistrale di Roger Elswit al culto della bellezza pittorica nei quadri di Caravaggio. Anche l’uso del bianco e nero, l’assenza di un montaggio incalzante, la ricca presenza di immagini che sono in realtà quadri e fotografie, dà il senso di una storia che vuole essere raccontata come un freddo noir, manchevole di melensi sentimentalismi o di giudizi impropri sul sottile confine che divide il bene e il male. 

Il vero protagonista di Ripley è il paesaggio, quello triste e romantico del mare campano, quello arcaico e monumentale delle strade romane, quello barocco e magnifico degli scorci siciliani. Poi c’è il co-protagonista: un Thomas Ripley quasi rigido nella postura, col suo mezzo sorriso stampato in faccia per la maggior parte del tempo, capace di atroci efferatezze senza mai perdere l’eleganza fisica. 

E infine ci sono le comparse, quasi delle marionette in una storia che sembra mancare di fatti, nonostante accada di tutto: due omicidi, tanti sospetti, alcuni testimoni, parecchi albergatori, un inquirente. E naturalmente Dickie Greenleaf, il giovane rampollo a cui viene rubata l’identità, e Marge Sherwood, la ragazza inquieta e dubbiosa, che non si arrende alle piccole stranezze, e che insegue il suo amato senza riuscire in una conclusione che sia reale o comprensibile. È infatti Tom a muovere i fili della storia, dietro le quinte di una narrazione per la quale è sia attore che autore, solitario e complice di sé stesso, uno e molteplice: agisce e fa muovere gli altri, manipola e cancella le tracce, studia gli eventi e affronta gli imprevisti. 

Tenta in ogni modo di assumere la voce, la postura, il carattere, a tratti anche il volto dell’amico Dickie Greenleaf, per il quale sembra provare, nello stesso tempo, un’intima antipatia, con il suo denaro ostentato, la sua ricchezza sfacciata, il suo Picasso messo quasi all’angolo, la sua fidanzata così poco amata. Eppure rimane, sempre e solo, dall’inizio fino alla fine della storia, sé stesso: Ripley. Thomas Ripley. Per gli amici: Tom.

Recensione di Elisa Scaringi

Autore dell'articolo: Francesco Vannutelli