A quattro anni di distanza arriva Peninsula, l’atteso seguito di Train to Busan. Nel 2016, questo film sudcoreano a tema zombie di un regista sconosciuto, Yeon Sang-ho aveva conquistato critica e pubblico, con il suo approccio originale al genere horror-zombie e un successo al botteghino tale da giustificare la realizzazione di un seguito.
Peninsula, ambientato otto anni dopo gli avvenimenti del primo film, porta sulle spalle una certa dose di aspettativa e responsabilità nei confronti degli spettatori. Si capisce immediatamente che questo film si allontana completamente da quello che Yeon Sang-ho ci ha mostrato nella sua opera prima: se Busan era il “focolaio”, Peninsula è senz’altro l’”apocalisse”. Trattare delle conseguenze di un’epidemia di non morti su larga scala, non più confinata all’interno dei vagoni di un treno, non deve essere stato facile e lo si evince bene nell’arco delle due ore di durata.
Purtroppo la storia non riguarda più i protagonisti originali ma segue le vicende di Jung-seok (Dong-Won Gang), un ex soldato che era riuscito ad abbandonare la Corea del Sud durante il dilagare dell’epidemia zombie, per rifugiarsi a Hong Kong. L’uomo è ora costretto a rientrare nel suo Paese per una missione speciale: recuperare un furgone pieno di soldi.
Se nel primo capitolo la cosa migliore era la sceneggiatura, qui non possiamo dire lo stesso, anzi di cose buone ce ne sono poche. Come abbiamo detto in precedenza le scene del primo film erano girate su di un treno, in spazi ristretti e claustrofobici ma pieni di luce così da rendere le inquadrature sempre chiare, invece in Peninsula accade l’opposto; ci troviamo catapultati in ambienti aperti ed enormi, senza punti di riferimento, con scene quasi sempre girate di notte in pieno buio rendendo poco comprensibile le scene più concitate. Detto questo, è il nuovo approccio a non funzionare.
Molte tematiche che fanno da contorno alle vicende sono poco credibili e solo accennate, servono a dare una debole caratterizzazione ai personaggi, con cui non proviamo mai empatia. Si poteva osare di più con i temi politici (vista l’attualità) ma anche qui si scalfisce solo la superficie lanciando qua e là messaggi che passano inosservati: descrivere la Corea del Nord come “zona sicura”, parlare degli immigrati scampati all’epidemia che vengono trattati come degli appestati. E anche il senso del dovere e dell’onore verso la famiglia sembrano affrontati troppo superficialmente e non riescono a suscitare nello spettatore nessun sentimento, neppure durante scene più drammatiche.
Ovviamente non è tutto da buttare e in fondo un film di questo genere punta forte sulla presenza scenica degli zombie. C’è una sequenza bellissima, davvero molto ispirata, con un’auto telecomandata dentro un tunnel che è utilizzata per distrarre l’orda di non morti.
Gli zombi di Peninsula sono l’unica cosa familiare che ritroviamo di Train to Busan. Sono spaventosi, implacabili, imprevedibili e veloci e quando sono presenti sullo schermo come orda, sono una delizia per gli occhi. Purtroppo ad un certo punto il film si trasforma in Fast & Furious e l’eccessivo uso della CGI (peraltro di basso livello) per gli inseguimenti e le acrobazie dà la strana sensazione di trovarsi di fronte ad un videogioco.
Quando si hanno a disposizione molte risorse chi è dietro la macchina da presa deve rimanere con i piedi per terra e ben focalizzato sulle proprie idee e obiettivi. A nostro modesto parere Yeon Sang-ho non ci è riuscito. È mancato quel quid che renderà Train to Busan un cult e Peninsula uno dei tanti horror a tema zombie in circolazione.