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HIS HOUSE | La recensione del primo film di Remi Weekes

Con la sua opera prima His House, lo sceneggiatore e regista britannico Remi Weekes ha realizzato un film horror che riprende il sottogenere della casa infestata, lo rivitalizza senza stravolgerlo, gli dà un contesto attuale e lo rende godibile per il giovane pubblico di Netflix. Combina in modo bilanciato gli elementi originali con quelli più familiari unendo la storia umana di due immigrati con quella soprannaturale dei fantasmi. È una pellicola molto interessante, e interessata ad un aspetto sociale in particolare, di un regista giovane pieno di talento, e non sorprende che Netflix sia corsa ad acquistarne i diritti prima che fosse presentato al Sundance Film Festival.

Per i primi 20 minuti, His House si presenta come un “normalissimo” film drammatico che racconta la difficile situazione di una famiglia sudanese in cerca di asilo in Inghilterra. Bol (Sope Dirisu) e Rial (Wunmi Mosaku) scappano dalla guerra e dalla miseria del loro Paese mettendo in gioco le loro vite. Purtroppo durante il viaggio a causa di un naufragio la figlia perde la vita. Dopo un periodo in un centro di detenzione, finalmente hanno la possibilità di ricominciare una nuova vita, in una nuova casa, e non importa che sia sporca e malandata è la loro casa. Tuttavia il sollievo iniziale si trasforma lentamente in terrore, quando si accorgono di non essere soli.

Ambientando il suo film in una zona imprecisata fuori Londra, Weekes rende la vita della coppia fuori e dentro casa molto difficile. I loro brevi incontri con il mondo esterno sono duri e spietati, rendendo impossibile qualsiasi tipo di inserimento nella comunità. Ma Weekes evita intelligentemente di mostrare troppo del mondo esterno: l’agente immobiliare Mark Essworth (Matt Smith) è l’unico contatto con quella realtà che dovrebbe essere accogliente e solidale ma che si rivela ostile e chiusa.

Tutte le scene più importanti si svolgono all’interno delle quattro mura casalinghe (salone / cucina, cucina / salone), un luogo familiare e sicuro il più delle volte, ma in questo caso un incubo ad occhi aperti. Weekes non si lascia trascinare del tutto nell’onirico ma mantiene sempre un piede nel mondo reale. L’ossessione di Bol è legata a qualcosa che sembra tangibile, non è solo il dolore per la morte della figlia, ma anche il peso devastante di essere sopravvissuto, lasciandosi alle spalle gli altri. Una colpa che è difficile da espiare senza sacrificare qualcosa di importante.

Per incutere anzia e paura nello spettatore Weekes fa affidamento su alcuni facili espedienti del genere (giochi di luce e buio), e il più delle volte il risultato è davvero convincente. Utilizza immagini surreali molto suggestive e affascinanti, e allo stesso tempo inquietanti. Gli ambienti sporchi e malandati rispecchiano perfettamente lo stato d’animo della giovane coppia, all’apparenza forte e unita (sorrisi forzati in pubblico), ma interiormente a pezzi.

Il giudizio della pellicola non può che essere positivo soprattutto grazie alle intense interpretazioni di Dirisu e Mosaku, che trasmettono sì le loro fragilità e le loro paure ma anche una determinazione che solo chi ha visto la morte in faccia può avere. In 93 minuti serrati, Weekes consegna un biglietto da visita elegante e raffinato che non passerà di certo inosservato ai piani alti di Hollywood.

(His House (2020), di Remi Weekes, horror, Regno Unito, 93 min, disponibile su Netflix)

Autore dell'articolo: moviedigger