Girato nel 2019 e scritto ancora prima, Da 5 Bloods – Come fratelli del prolifico Spike Lee, disponibile dal 12 giugno su Netflix, avrebbe il sapore dell’instant movie uscito per sottolineare il momento tumultuoso che stanno vivendo gli Stati Uniti e di riflesso anche il resto del mondo. Tuttavia Lee ha un curriculum che parla da solo, le disuguaglianze sociali nel paese di Frederick Douglass sono il grande problema irrisolto e Black Lives Matter non è uno slogan trendy dell’ultima ora.
Giusto il tempo di premere play e vediamo Muhammad Ali spiegare senza giri di parole perché non andrà a sparare ai vietnamiti. È un’immagine di repertorio del 1967. Ne seguono altre, accompagnate dalla strepitosa voce di Marvin Gaye (che costituirà la colonna sonora di tutto il film insieme alle musiche originali di Terence Blanchard), in cui si alternano le battaglie dei cittadini afroamericani contro la discriminazione razziale e le violenze della guerra del Vietnam, in cui quegli stessi cittadini combattevano e morivano per tenere alto il nome del paese che in patria li chiamava “negri”.
L’uso di filmati e foto reali è un classico dei film di Spike Lee. Qui non si limitano all’apertura, ma spuntano all’occorrenza come tagliente contrappunto storiografico alla finzione messa in scena. Altro grande classico di Lee sono i titoli in slang; Da 5 Bloods può barrare anche questa casella. Qui si allude a cinque soldati afroamericani (i cinque fratelli) che nel 1971 in Vietnam avevano seppellito una cassa di lingotti d’oro, destinata originariamente a pagare l’aiuto dei sudvietnamiti, per spartirsi la fortuna in un secondo momento che mai arriverà. Dei cinque commilitoni solo quattro faranno ritorno a casa, perché Norman, il caposquadra e di fatto leader politico del gruppo, è ucciso sul campo di battaglia. Proprio di Norman era stata l’idea di tenere i lingotti come giusto risarcimento per i soprusi subiti dal loro popolo.
Il momento propizio per tornare e disseppellire il tesoro, e recuperare i resti dello sfortunato fratello, si presenta quarant’anni dopo, quando i quattro reduci ormai imbolsiti si ritrovano nell’ex Saigon per una ultima avventura nel sud-est asiatico. Il battello che avanza sul fiume per portarli verso il cuore della giungla è spinto dalla Cavalcata delle Valchirie, per una delle tante citazioni e autocitazioni (non manca il tormentone di Isiah Whitlock Jr, nato proprio con La 25a ora di Spike Lee).
La guerra fa schifo e lascia abissi a volte insondabili dentro chi ne ha dovuto far parte. I quattro fratelli lo sanno e nonostante vite e convinzioni diverse sono legati per sempre. Le scene sono forti, specialmente nei flashback degli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta, in cui cambia il formato e i bloods, tranne Norman, sono interpretati dagli stessi attori sessantenni, senza l’ausilio di tecniche di ringiovanimento. L’esperienza del regista nato ad Atlanta e cresciuto a Brooklyn traspare nella precisione e nell’estro di ogni inquadratura.
Tanto è girato bene e tanto è contundente la tesi politica quanto è inconsistente la sceneggiatura. Il problema di Da 5 Bloods sta proprio nel mezzo, quando vediamo la compagnia dei quattro, alla quale per la verità si aggiunge anche David (Jonathan Majors), figlio di Paul (Delroy Lindo, il migliore), cercare di recuperare l’oro e portarselo via. Proprio Paul, unico sostenitore di Trump con tanto di cappelletto MAGA, è il personaggio più interessante, sebbene le sue azioni diventino presto troppo mutevoli e impulsive per essere giustificate fino in fondo dal disturbo da stress post-traumatico di cui soffre. Due degli altri tre amici sono caratterizzati a malapena, mentre il figlio è in un’età tra i 25 e i 30 ma si comporta per qualche motivo come se ne avesse tra i 10 e i 15. Completano il cast alcuni personaggi minori e un Jean Reno in versione trafficante internazionale.
Lasciateci anche dire che ci troviamo di fronte a un altro sciatto adattamento di Netflix. È vero che quasi tutti i dialoghi del film sono nell’ostico inglese vernacolare afro-americano, ma quando a un certo punto ci viene sparata in faccia la doppietta “sputa il rospo” + “vuota il sacco” uno di seguito all’altro, capiamo che c’è un limite a tutto.
Inconsistente, dicevamo, è la sceneggiatura. Molti colpi di scena sono più che prevedibili, mentre altre volte gli eventi prendono una piega così irrazionale e casuale da essere il massimo dell’imprevedibilità, in senso negativo. Difficile sia seguire la logica dell’intreccio sia provare empatia per le vicissitudini fisiche e morali dei protagonisti. Qualche lampo, pur nella sua discutibile volubilità, ce lo regala Paul, con tanto di monologo (altro marchio di fabbrica di Lee) guardando dritto in macchina.
Se due anni fa BlacKkKlansman aveva proposto una struttura narrativa analoga, in quel caso l’intercalare di immagini di repertorio e la tesi politica facevano da supporto a una vicenda comunque coinvolgente e coerente. Avendo oggi negli occhi le dure immagini della brutalità dei vari corpi di polizia statunitensi e il brevissimo ma potentissimo cortometraggio 3 Brothers – Radio Raheem, Eric Garner and George Floyd, viene da pensare che, lasciando perdere interamente l’epica sbilenca messa in scena, Da 5 Bloods avrebbe potuto essere un grande documentario.
Il cinema di Spike Lee da sempre racconta che cosa significhi essere afroamericani in un “paese costruito sui corpi dei neri uccisi”, in cui la storia si ripete tragica dal 1619. La lotta per i diritti civili e per il pieno riconoscimento nell’identità nazionale collega i campi minati del Vietnam e il balcone del Lorraine Motel di Memphis in cui fu ucciso Martin Luther King.
Mostrandoceli in apertura e in chiusura, Lee ci dice che sono i leader che devono dare forma concreta e proficua alla lotta, alla rabbia e alle proteste. Malcolm X, Kwame Ture, Angela Davis, Bobby Seale. Sembra dircelo proprio ora, mentre guardiamo le immagini delle città americane in rivolta dopo l’omicidio di George Floyd da parte di agenti della polizia di Minneapolis.
Il film si congeda sulle immagini di Dr. King, come è comunemente chiamato, un anno esatto prima di essere assassinato. Lo ascoltiamo prendere in prestito i versi di una composizione dedicata agli ultimi scritta nel 1935 dal poeta Langston Hughes: Let America Be America Again.