ALICE IN BORDERLAND | La recensione della serie Netflix

Fino a poche settimane fa La regina degli scacchi era la serie sulla bocca di tutti – e grazie a Anya Taylor-Joy siamo diventati degli scacchisti professionisti – ma come spesso accade ai contenuti pensati per lo streaming la loro vita è alquanto breve. Così eccoci a parlare della nuova serie che ha conquistato la top ten dei titoli più visti su Netflix, Alice in Borderland.

Ci siamo avvicinati a questa serie fantasy, tratta dall’omonimo manga di Haro Aso, non conoscendo l’opera originale, non che sia una cosa negativa, anzi! Solitamente un confronto di questo tipo – inevitabile quando si realizza una trasposizione live-action – non è mai ad armi pari, perciò ci siamo sentiti sollevati.

Arisu è un ragazzo appassionato di videogiochi che non studia e non lavora e per questo ha un rapporto conflittuale con la famiglia. Per fortuna può contare su Karube e Choto, i suoi migliori amici, con cui affronterà una serie di giochi mortali in una Tokyo deserta.

La prima parte della storia, priva di qualsiasi logica, è davvero molto intrigante: le spiegazioni che vengono fornite sono poche e incomplete e per lo più si limitano a istruire i giocatori sul meccanismo dei giochi. La struttura narrativa è simile a quella dei videogame, superata la prima prova si avanza alla successiva. Tranquilli, questa routine è spezzata da continui flashback che aiutano a capire meglio il legame di amicizia che unisce i tre ragazzi e racconta le vite degli altri sopravvissuti che Arisu incontra durante i giochi.

Questa è una scelta poco originale ma aiuta a mantenere in equilibrio il ritmo della narrazione. Nei primi episodi la parola d’ordine è “pensare in fretta e agire”. Infatti la storia avanza spedita verso il Game Over in un susseguirsi di giochi con regole assurde seminando lungo il percorso piccoli indizi che non aiutano a capire chi o cosa si cela dietro tutto questo ma permettono di sopravvivere. Le scene d’azione sono girate molto bene, con coreografie ispirate, e anche le ambientazioni della città di Tokyo – fin troppo familiari a causa del lockdown – sono molto suggestive (la memoria ci porta alla Londra di 28 giorni dopo).

La seconda parte di Alice in Borderland, pur mantenendo le consuete dinamiche del survival game, continua ad esplorare sì la psiche del singolo ma in un contesto sociale più ampio presente da sempre nella cultura giapponese che noi occidentali fatichiamo a comprendere: il sacrificio di uno per il bene di molti.

Non mancano aspetti che ci hanno fatto storcere il naso come alcuni buchi di trama, le scelte illogiche di alcuni giocatori e l’assenza totale di empatia nei confronti di Arisu e di chi muore. Percepiamo dalle parole e dalle azioni del protagonista la volontà di sopravvivere a tutti i costi ma a livello emotivo, forse a causa della lingua o dell’interpretazione dell’attore Kento Yamazaki, non siamo stati stimolati a sufficienza.

Insomma chi bazzica questo genere di cose troverà tutto molto familiare, invece chi come noi brancolava nel buio avrà bisogno di un paio di episodi per adattarsi ad un mondo in cui la posta in gioco è la più alta: la vita.

Autore dell'articolo: moviedigger