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PRESENCE | La recensione del film di Steven Soderbergh

Classificazione: 3 su 5.

A meno di un mese dall’uscita nelle sale, il 24 luglio, arriva Presence, l’ultima fatica di Steven Soderbergh. Questo thriller soprannaturale promette di rivoluzionare le convenzioni del genere e, in effetti, ci riesce in parte.

L’idea alla base del film è a dir poco geniale: seguiamo la quotidianità di una normale famiglia americana apparentemente perfetta, ma lo facciamo attraverso gli “occhi” di una presenza che infesta la loro nuova casa. È un’esperienza voyeuristica e inquietante, con la telecamera – manovrata dallo stesso Soderbergh, che si occupa anche del montaggio – che fluttua senza peso per le stanze, diventando un vero e proprio personaggio. Dimenticate i primi piani: l’obiettivo mantiene le dovute distanze, spiando tutti i membri della famiglia Payne: i genitori, Rebekah (Lucy Liu) e Chris (Chris Sullivan), e il primogenito Tyler (Eddy Maday).

Tuttavia, è la figlia adolescente, Chloe (Callina Liang), a catturare maggiormente l’attenzione dello spirito, che percepisce il suo dolore dovuto alla morte della sua migliore amica. La cosa ancora più angosciante è che Chloe, a sua volta, percepisce questa presenza che ogni giorno che passa si fa sempre più vicina. Ed è qui che la loro realtà quotidiana inizia a sgretolarsi e le tensioni si amplificano.

Questa seconda collaborazione tra Steven Soderbergh e lo sceneggiatore David Koepp, dopo l’intenso Kimi – Qualcuno in ascolto, tenta di rivoluzionare il genere ghost story, in particolare sulla possessione domestica, riuscendovi solo in parte. L’approccio visivo, che ci cala letteralmente nel punto di vista del fantasma, è concettualmente affascinante e visivamente elegantissimo. Tuttavia, proprio qui emergono le prime criticità: se da un lato questa tecnica costituisce il cuore del giallo, dall’altro finisce per compromettere la tensione. La distanza imposta dall’obiettivo, pur essendo funzionale alla prospettiva “spettrale”, rischia di allontanare lo spettatore dalla vulnerabilità di Chloe, rendendo difficile empatizzare pienamente con il suo dolore.

Presence si rivela un esercizio stilistico interessante, ma purtroppo incompleto. Il film dà l’impressione che alcuni passaggi cruciali siano andati persi tra un movimento di camera e il taglio alla scena successiva. Diversi accenni narrativi, come le azioni poco chiare della madre, vengono introdotti per poi essere frettolosamente abbandonati, lasciando un persistente senso di incompiutezza. Anche l’apparizione della sensitiva (interpretata da Natalie Woolams-Torres), sebbene breve, si trova a dover sostenere tutto il peso della trama, fungendo da deus ex machina per un atto finale che altrimenti risulterebbe affrettato.

Nonostante le sue lacune, Presence merita di essere visto per la sua premessa coraggiosa e l’innovazione visiva, che ricorda l’approccio di Zemeckis con Here. Tuttavia, si ha l’impressione che, anche in questo caso, la ricerca dell’originalità prevalga sulla coerenza narrativa e sull’impatto emotivo. È un esperimento affascinante che non tutti apprezzeranno, ma è questo il tipo di cinema che aspira alla grandezza. A volte ci riesce, più spesso no, ma bisogna ammettere e premiare il coraggio di osare.

(Presence di Steven Soderbergh. 2025, USA, thriller, 85′)